Quale sconfitta? A volte, arrendersi significa vincere
Viviamo nella promozione incessante per le sfide. La formula matematica del “non mollare mai” gravita sugli uomini in modo così prepotente da renderli schiavi di un culto per l’educazione che esalta gli istinti battaglieri. L’obiettivo è incondizionato: tagliare il traguardo a qualsiasi costo. Quasi senza più rendersene conto, l’uomo è visibilmente piegato a un diktat autoimpostosi che prevede la rincorsa verso una sopravvalutata sete di gloria. Nella vittoria sugli altri, e su se stessi.
Per l’uomo la vita è degna di essere vissuta solo se si persegue quella via che – arbitrariamente – si è definita come la sola in grado di far sbocciare progetti conformi a quei valori che – sempre arbitrariamente – l’io stringe forte nel proprio pugno. Il meritato trionfo si ottiene solo se si lotta. Non si dovrebbero contare gli inciampi; la posta in gioco è tutta puntata sull’arrivo. Ciò che conta è il fine, la linea che separa il vinto dal vincitore.
Combattere; non mollare; perorare la causa; stringere i denti e resistere fino alla morte, qualora necessario. Spingere le forze fino all’estremo umano. Per non doversi pentire; per non avere rimpianti; per poter dire di averci provato. Non importa quanti segni deturperanno l’animo per far fronte a cotanta risolutezza. Nessun timore. Neppure per la distanza che si creerà tra l’io e quel suo continuo mutare. Caparbietà e coerenza erodono la possibilità di un contatto onesto con la propria intima essenza la quale, invece, evolve, avanza nuove richieste, esige un nuovo sguardo.
Ma non si può e non si deve cedere. Perché cedere sostituisce una parola troppo grande e inaccettabile: perdere. L’atteggiamento della resa diventa, così, misera accettazione della sconfitta. Ma questa eredità ingombrante non è che l’insegnamento che ci detta la storia dei grandi eroi. A partire dalle mosse stoiche fino alle virtù osannate dei mitici condottieri: una filologia del temperamento d’acciaio che arriva fino a noi, continuando a difendere il patrimonio della “resistenza”. Miguel de Cervantes scriveva – con giudizio – che “ritirarsi non è scappare, e restare non è un’azione saggia quando c’è più ragione di temere che di sperare”.
Allora perché non iniziare a pensare – con un atteggiamento di lenitiva controtendenza – che durante una corsa ci si può fermare? Un arresto, una deviazione, un cambio di rotta. La vita non può essere segnata in partenza. Imboccare al bivio una nuova direzione significa avere riguardo dei propri desideri che affiorano e crescono insieme all’io. Desideri che maturano camminando, che conducono laddove non si poteva immaginare. Quei desideri che, se accolti, avvicinano alla felicità.